Rubens, diamanti, cioccolato, moda. Quattro parole per dire Anversa, nell’ordine che preferite. Chi ci vive, aggiungerebbe la cattedrale, la birra Bolleke, le banchine del porto su cui hanno transitato spezie esotiche ed anime migranti. Anversa è lo Scheldt, il fiume che la percorre, luogo di ispirazione, meditazione, divertimento; è lo zoo storico, proprio accanto alla fastosa stazione centrale, è Grote Markt,la piazza del comune e i boulevard, entrambi creati da Napoleone che da Anversa progettava di conquistare la Gran Bretagna. Il piano fallì, e Anversa divenne il suo punto di difesa. Anversa sono “le terrazze”, ovvero i bar con i tavolini all’aperto dove si assorbe ogni raggio di sole, se occorre (e occorre!) protetti da un plaid quando le temperature sono ancora rigide. L’inverno è stato lungo e all’inizio di aprile non era ancora finito: la città era in attesa di cambiare pelle, di lanciarsi verso l’estate. Le vetrine erano già pronte, solo il meteo rifiutava di sintonizzarsi sulla bella stagione. Anversa è una città per vivere rispetto a Bruxelles che è una città per lavorare.
Ma Yusuf, marocchino, il nuovo proprietario dell’Hotel National dice con aria sconsolata in inglese, una delle cinque lingue che parla oltre all’arabo, il fiammingo, il francese e il tedesco: “La città di Anversa mi sta uccidendo”, e lancia un’occhiata sconsolata ai perenni lavori in corso non solo in Nationalstraat, nel quartiere della moda, ma in tutto il centro della città. I tram d’altri tempi scivolano imperturbabili lungo i binari, tra selci divelti, trincee, materiali ammucchiati ai lati e agli angoli delle strade. Dietro il tram lungo le rotaie si incamminano anche i pedoni, e le biciclette fanno lo stesso. Anche per questo Anversa sembra avere un’aria impolverata e vintage. Il modernariato è una passione dilagante: quando apre una nuova rivendita di oggetti e mobili di recupero provenienti da scuole, università, uffici governativi, i proprietari dei negozi di design si precipitano ad accaparrarsi i pezzi migliori per poi rivenderli a un prezzo assai differente. Così nei locali il vintage convive accanto al design più moderno. Yusuf mostra orgoglioso un sedile di pelle pagato 40 euro, i tavolinetti di bambù 15, le sedie del ristorante 12. La carta da parati invece viene da New York e i passanti entrano apposta per fotografarla. Ve ne potete portare via un pezzettino con il biglietto da visita dell’hotel, a pochi passi dal museo della moda, dalla cattedrale e dal Museo Plantin-Moretus.
Tutta la città ha un fascino âgé innestato di contemporaneo, sembra immersa in uno stile retro-post moderno, per cui non scandalizzatevi se alzando gli occhi dal menù al soffitto a volte noterete stucchi scrostati o smozzicati, prolunghe elettriche che corrono lunghi i muri, fili elettrici che attraversano pareti e soffitti per ricongiungersi a lampadari importanti, art déco o anni ’60. Sembra una città con la fretta di tornare a vivere dopo un trauma, una guerra o un terremoto, dove gli esseri umani si sono riappropriati in fretta e furia dei loro spazi, troppo presi dal vivere quotidiano per preoccuparsi di rimettere prima tutto perfettamente a posto.
Leave a Reply