Domenica a pranzo, mentre mangiamo un’insalata brasiliana e un dessert da mafia russa sulla terrazza del Clazz sotto il sole battente, Victoria mi chiede: “Ti piacerebbe vedere il museo del KGB?”
Così lunedì mattina alle 11 e 30, entro nella hall dell’enorme scatola di fiammiferi che è l’Hotel Viru e mi unisco a un gruppetto di turisti di varie nazionalità (finlandesi, romeni, americani, inglesi). Jana, la guida, potrebbe essere la versione estone di Lisbeth Salander, e dopo un breve preambolo, ci dirige verso gli ascensori: “Nella pulsantiera non c’è il 23° piano, perciò ci vediamo al 22”. Vamos.
L’Hotel Viru è un esempio eclatante di architettura sovietica. Fu inaugurato nel 1972, a tempo di record rispetto ad altri hotel della stessa catena, grazie al reclutamento di manodopera finlandesse, azione che la propoganda spiegò come un atto di solidarietà verso i compagni finlandesi devastati dalla crisi del capitalismo. È una torre rettangolare che si staglia appena fuori il perimetro della città vecchia, la sua facciata ora è protetta. Era di proprietà di Intourist, l’agenzia di viaggio ufficiale dell’Unione sovietica, fondata da Stalin, che aveva al suo interno agenti del KGB. Tutte le storie che abbiamo sentito raccontare sugli alberghi per turisti nell’URSS qui trovano uno scenario perfetto. Una sessantina di stanze dell’Hotel Viru erano dotate di microspie, che erano infilate anche nei piatti o nei posacenere al ristorante e al bar. Jana spara aneddoti a ripetizione, il gruppo ride e commenta.
L’albergo era una piccola città, i dipendenti erano 1800, ognuno altamente specializzato: c’era l’incaricato di affettare il pane, l’addetto alla pesatura dei cibi, al fax, così come c’erano una sessantina di signore il cui compito era stare sedute accanto alle porte dell’ascensore a ogni piano per monitorare tutti gli spostamenti degli ospiti dell’hotel. C’era chi si divertiva a correre avanti e indietro per farle impazzire.
Il 23° piano è l’ultimo e ha una terrazza panoramica con vista su tutta l’Estonia, data la totale assenza di rilievi. In un angolo c’è una porta e dietro quella porta c’è un piccolo bunker con le pareti in cemento brutalista, la postazione del KGB: il telefono con la linea diretta con Mosca, le apparecchiature, le radio, la brandina, la maschera antigas, le scartoffie. L’ufficio venne abbandonato all’improvviso nel 1991, l’anno dell’indipendenza, e da allora è stato lasciato intatto, ci sono perfino i mozziconi di sigarette nel posacenere, l’odore è rimasto lo stesso. Tra i cimeli un finto portamonete, in realtà un’esca per mettere alla prova i dipendenti: se aperto in cerca di preziosa valuta straniera, schizzava vernice rossa sul malcapitato.
Quando incontro di nuovo Victoria e le dico che il museo mi è piaciuto e tutti i turisti dovrebbero vederlo, mi risponde: “It isn’t a tourist attraction, it’s heritage!” Chi se la sente, può fermarsi al Foreign Currency Bar e ordinare il cocktail Falce & Martello, così battezzato perché ha l’inevitabile effetto di tagliarti le gambe e darti una botta in testa. Finché restate in piedi, potete sonorizzarlo con un trombettista funk-jazz dell’epoca della cortina di ferro, Jaan Kulman.
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