Dopo un tour di venti date nel Regno Unito, concluso con due serate trionfali alla Royal Albert Hall di Londra e un concerto «in casa» al Dome di Brighton, Nick Cave e Warren Ellis hanno attraversato la Manica. Le prime due tappe continentali sono alla Salle Pleyel di Parigi, prima di proseguire per Amsterdam e Anversa. Pur mantenendo un’attività quasi febbrile nonostante il lockdown, la pandemia ha interrotto il ciclo vitale di Cave: fare un disco e suonarlo dal vivo. Il tour con Ellis è innanzitutto questo: l’occasione per festeggiare il ritorno sul palco e recuperare il tempo perduto.
Nella setlist ci sono gli ultimi due dischi, Ghosteen e Carnage, con un brano da Skeleton Tree (I Need You) e l’immancabile God is in the House da No More Shall We Part, più qualche sorpresa nei bis. Oltre al polistrumentista francese Johnny Hostile, già partner di Jehnny Beth, sul palco ci sono tre coristi neri (T. Jae Cole, Janet Rasmus e Wendi Rose) più l’elettronica, il violino e il flauto di Ellis.
Dal vivo le non-canzoni di Ghosteen e Carnage acquistano un suono ambient-gospel e space-kraut-gospel, il primo per i momenti più elegiaci, il secondo per quelli più furibondi. In mezzo, una sezione con Cave da solo al pianoforte. Si comincia con Spinning Song. «And I love you, and I love you, and I love you, and I love you», recita Cave come un mantra: amore sarà la parola più ripetuta stasera (la seconda probabilmente è fucking).
L’umore è quello di un récital caloroso, rilassato, dal palco si riversa sul pubblico attento ed emozionato un’ondata di umanità e convivialità. Poi davanti ai nostri occhi il vecchio rocker diventa Macbeth, il povero attore che si agita e si pavoneggia sul palco, blaterando un racconto pieno di strepiti e furore. In I Need You, Cave ripete «just breathe» all’infinito finché diventa un balbettio beckettiano che sfocia nel nonsense e nell’afasia quando i suoni gli si strozzano in gola. Ma Cave è anche l’eroe tragico che vive per dare significato alle tenebre attraverso la creazione artistica. «It’s a long way to find peace of mind, peace of mind», ripete ossessivamente in Hollywood, e lo dice come un essere umano a cui la catastrofe è capitata prima di noi, come a noi. In Balcony Man gioca con il pubblico della balconata, ma quando canta «Quello che non ti uccide ti rende più folle», sappiamo tutti a cosa si riferisce.
I coristi iniettano soul alle canzoni dolenti e apocalittiche e sul palcoscenico, come un coro greco, sembrano dare voce agli spiriti dell’aldilà, diventa le presenze spettrali delle persone amate che non ci sono più. Nel caso di Cave, il figlio adolescente Arthur morto nel 2015. Quasi per scrollarsi di dosso tanta intensità, Cave sputa clamorosamente sul palco, come se avesse diciassette anni e dietro di lui ci fossero i Boys Next Door, ma anziché attaccare Shivers (che qualcuno del pubblico gli chiederà durante i bis), parte con una versione sguaiata di White Elephant, totalmente calato nel ruolo dell’invasato alla Travis Bickle di Taxi Driver. È una carica dopante, una rincorsa che gli serve per passare a Ghosteen: lo strazio trasformato in estasi, il buio del dolore più disumano che trova la luce di un’illuminazione laica. Cave pesta sui tasti del pianoforte, l’incedere è quasi militaresco: dopo l’odio feroce di White Elephant, Ghosteen è l’amore totale, il performer che cerca la catarsi, la trascendenza dalla sua condizione umana.
L’interludio solista, Cave e il pianoforte, è forse la sequenza meno riuscita del set, a cui segue Cosmic Dancer dei T Rex che, semplicemente, non è la sua perché non è una torch song, ma una canzone che solo l’impertinenza leggiadra e glam di Marc Bolan può interpretare. Cave ha avuto avuto una fase t-rexiana in gioventù, ma la sua gravitas lo rende inadatto alla verve bolaniana: solo Bolan può cantare la morte negoziandola con una visione caleidoscopica ed edonistica della vita.
Alcuni brani degli ultimi dischi, maturati sulle bucce saturnine del lockdown, subiscono metamorfosi grottesche, perfino caricaturali: l’impressione è che Cave abbia bisogno di mettere distanza tra sé e quelle canzoni che altrimenti non riuscirebbe a interpretare dal vivo. Nel bis a sorpresa arriva Henry Lee, la murder ballad cantata con PJ Harvey, e la classica Into My Arms, durante la quale succede una cosa significativa: quando canta «And I don’t believe in the existence of angels», gira il viso di lato e pronuncia quel verso suo malgrado, quasi con disprezzo. C’è una distanza siderale tra l’autore di quelle parole e l’uomo per cui oggi l’esistenza degli angeli è un pensiero confortante.
Il finale sorprende per la scelta bizzarra dei pezzi: Palaces of Montezuma dei Grinderman al piano e violino, Watching Alice da Tender Prey, altra canzone a cui Cave è particolarmente affezionato, introdotta da un inutile accenno di polemica («Una canzone che oggi è difficile cantare», alludendo al voyeurismo del narratore nei confronti di una ragazzina che cresce davanti ai suoi occhi. Davvero spiace che Cave non riesca a distinguere le polemiche strumentali e le fake news sulla presunta cancel culture) e Breathless da Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus.
Quando dopo il secondo bis chiude con Ghosteen Speaks e dice «I am beside you, look for me», non sappiamo se è la voce di Arthur che consola suo padre, o se è il nostro vate in completo nero e camicia bianca, a salutarci con una promessa, incoronato da quei capelli corvini che sembrano tinti con il Vantablack S-VIS di Anish Kapoor, il nero più nero che esista. Anche così esile e lugubre, con le sue lunghe gambe da ragno, fa pensare all’Elvis di Las Vegas, grottesco nel suo mantello dorato. Ma questo significa che anche Nick è leggenda. (pubblicato in forma editata su Il Manifesto del 23 ottobre 2021)