Nel Regno Unito lo shed, il capanno, è un’istituzione. Ricordate lo sketch dei Monty Python?
Quando Catrina Davies ha iniziato a scrivere il suo memoir, la pandemia da coronavirus era molto in là da venire. Nel Regno Unito uno degli effetti collaterali, certamente non il più drammatico ma comunque significativo, è stata una penuria di capanni. Probabilmente chi ha potuto si è costruito uno shed per fuggire dalle città, o chi non ce l’aveva ne ha installato uno in giardino come postazione smartworking.
“Ero consapevole che, vista dall’esterno, la mia vita nel capanno sembrasse bizzarra e disperata – scrive Catrina Davies in Mal di Casa – soprattutto all’inizio, quando il capanno era un pugno in un occhio, talmente derelitto che pareva sul punto di collassare. Ma per me viverci era assai meno disperato rispetto alle vite precedenti in tende o caravan parcheggiati su terreni altrui, o in stanze in affitto dal costo esorbitante. Mi piacevano la luce e la solitudine, mi piaceva trascorrere la maggior parte del tempo all’aperto, adattare il mio comportamento alla forza del vento o alla rigidità del freddo (…) Ho scambiato frigoriferi e termosifoni con la libertà, e sebbene il mio stile di vita mi abbia posto delle sfide, sono arrivata alla conclusione che la libertà valga qualsiasi privazione materiale”.
Vivere nel capanno significa non solo affrontare la furia degli elementi, ma anche i fantasmi del passato – la propria storia familiare, dolorosa e irrisolta – gli ostacoli della burocrazia, la diffidenza dei vicini e creare un ambiente abitativo accogliente, seppure spartano. Come un Robinson Crusoe non colonialista, Catrina si costruisce da sé i mobili essenziali e inventa congegni risparmiafatica. La ricompensa maggiore per un’esistenza ridotta all’essenziale, è l’oceano e il surf: “Cominciai a guadare l’oceano blu, freddo e profondo, prendendomi cinque o sei onde sulla testa prima di un intervallo di calma che mi permise di salire sulla tavola e iniziare a pagaiare (…) Una volta lasciatomi alle spalle il punto in cui le onde si rompono sulla riva, la superficie del mare divenne liscia e vitrea come l’olio. Era così trasparente che riuscivo a vedere il fondo”.
Il surf ha una dimensione metafisica, come ben sanno i praticanti, e dà lezioni di vita molto Zen: non bisogna sforzarsi troppo, bisogna essere rilassati ma pronti all’azione; la paura può essere positiva o negativa, a seconda di come la usi. Soprattutto il surf ti costringe a vivere nell’attimo, cosa che difficilmente riusciamo a fare nella vita di tutti i giorni. Insieme a due amici temerari, Catrina compie un’impresa eroica, circumnavigando su una tavola da surf il promontorio di Land’s End. E’ un punto della estrema costa occidentale particolarmente pericoloso: gli scogli sommersi e le forti correnti, oltre ai venti e alle nebbie, rendono quel tratto di Atlantico tra i più infidi del mondo. A Land’s End, nel parco giochi che è il centro visitatori, i pannelli informativi mostrano la mappa con i siti di 37 naufragi.
“Più cose imparo sull’abitazione fragile e scricchiolante in cui vivo, più capisco che il mio capanno è un’imbarcazione molto più adatta al mio viaggio sulla Terra rispetto a una stanza costosa in una casa altrettanto costosa con riscaldamento centralizzato a gasolio e acqua calda dal rubinetto (…) Più a lungo navigo a bordo del mio capanno, più mi è difficile pensare seriamente di traslocare di nuovo in una casa. Non soltanto perché significherebbe sacrificare le mie storie e canzoni sull’altare dell’affitto, ma perché le case e i loro contenuti sembrano sepolcri, luoghi in cui si ammassano tenebre e polvere, in confronto alla ricchezza del mare, del cielo e delle stelle che nessuno potrà mai possedere”.
La storia di Catrina Davies non finisce con un naufragio: per quanto fragile possa sembrare dall’esterno, il suo shed ha resistito a decine di tempeste. I pericoli maggiori finora sono venuti dagli altri esseri umani, più che dagli elementi. Alla fine nello sgabuzzino a Bristol non ci è più tornata e vive ancora nel suo capanno. Con la pelle ispessita dal sale e l’oceano dentro le ossa, consapevole che la vera arte di vivere non è ammassare cose, ma non possedere quasi niente, sfruttarlo al massimo e dare via il resto. (leggi la prima parte)
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