All I need is a ten foot hut
Where I can live as Chomei taught
Listen to the wind singing in the reeds
Write poetry no-one reads
Catrina Davies è nata in Galles e cresciuta in Cornovaglia, è laureata, viene da una famiglia di origini umili sbaragliata dal Mercoledì Nero del 1992: il 16 settembre la lira italiana e la sterlina inglese furono costrette ad uscire dallo SME. I tassi di interesse raddoppiarono in una sola notte, l’impresa del padre di Catrina andò sotto, i suoi genitori non riuscirono più a pagare il mutuo e la banca si prese tutto. E’ stata un’adolescente con problemi di alimentazione che si è salvata grazie al surf. Suona il violoncello e la chitarra e nella vita vuole fare musica, viaggiare e scrivere. A trentun anni si ritrova a vivere clandestinamente nello sgabuzzino di una casa di Bristol insieme ad altri quattro adulti e un bambino: la finestra dà su un muro, di notte la sveglia il rumore della lavatrice, la mattina le urla dell’ennesima lite tra i coinquilini. Affittare quel bugigattolo costa una fortuna, Catrina deve vivere per lavorare per pagare l’affitto. Un mutuo, quello non ce l’avrà mai: se non si possiede già qualcosa, nel Regno Unito è impossibile accedere al mercato immobiliare. Un giorno, stufa di essere schiava del sistema, subaffitta lo stanzino per tre mesi, carica tutti i suoi averi sulla vecchia auto e parte in direzione della Cornovaglia. Destinazione: l’ex ufficio del padre, un capanno derelitto nei pressi di Land’s End.
Mal di Casa inizia con lei che nuota nell’Atlantico in compagnia delle foche al mattino presto. Vivere nel capanno di lamiera, senza coibentazione, è come vivere all’aperto, il confine tra dentro e fuori è molto permeabile. Non c’è elettricità né bagno, la vita è spartana ma libera. La natura è generosa, gli esseri umani meno. Catrina lavora per comprare quello di cui ha veramente bisogno, che è molto poco. Fa surf tutto l’anno, occasionalmente sale su una collina per raccogliere funghi magici, legge Walden di Thoreau (i capitoli di Mal di Casa hanno gli stessi titoli), mangia more e mele che raccoglie lungo la strada, nidifica nel suo capanno insieme agli uccelli, i ragni da cui è terrorizzata e altre presenze indesiderate (finché non riesce a tenerle fuori), ma almeno vive in un posto suo. Durante le vacanze i residenti, compresa la famiglia di sua sorella, lasciano le loro case ai turisti e si trasferiscono a vivere in una tenda in giardino, in un furgone, dalla mamma, perché con pochi mesi di affitto ci pagano il mutuo di tutto l’anno.
Esiste un altro modo di vivere, qui e ora. Lo hanno detto in tanti, tra gli ultimi – oltre a Catrina Davies in Mal di Casa – Leonardo Caffo in Quattro Capanne o della Semplicità (Nottetempo). Il filosofo parla di adottare “la semplicità come tecnica di sottrazione del fare” e il suo racconto sull’uscita salvifica dalla prassi inizia il 4 luglio 1845 proprio sulle sponde del Lago Walden. Il “mal di casa” di cui parla Catrina Davies nel libro nasce dalla crisi abitativa, nello specifico quella del Regno Unito, ma la crisi è globale ed è anche ambientale, si fonda sull’ingiustizia sociale e si ripercuote sulla nostra salute mentale: “Vivere in un capanno non è una scusa, né una scelta da barbona o un romantico sogno hippy, ma la mia risposta a una domanda impossibile: come restare in equilibrio in un sistema economico sostanzialmente malato”.
Uscire dal sistema come fa Catrina non è indolore: il capanno non può essere usato a scopo residenziale, è situato a un incrocio, non ha riscaldamento, in breve non è una scelta per tutti. La sfida è ardua, ma la sua motivazione resiste anche alle prove più drammatiche: “L’alternativa a vivere nel capanno è la schiavitù, vincolata al mutuo di qualcun altro. L’opposto della schiavitù è la libertà, non l’ozio, e la libertà è ciò che il mio capanno rappresenta. Libertà di lavorare, e lavorare tanto, su cose che per me sono importanti. Libertà di essere pagata male per fare le cose bene. Libertà di rifiutare di fare cose brutte solo perché mi pagano bene”.
Le foto recenti che la ritraggono sorridente in quella che sembra un’accogliente baita di montagna sono il frutto di lunghi anni di lavoro e risparmio, e di letture e riflessioni che portano a conclusioni molto chiare, come scrive a pagina 305 di Mal di Casa: “Se continuiamo a costruire case che riducono la superficie terrestre a nostra disposizione pur di evitare che gli avidi siano costretti a condividere ciò che possiedono, le nostre case finiranno per non valere nemmeno la terra su cui sono costruite perché il pianeta diventerà inabitabile. Quello che alcuni considerano un amore svenevole e romantico per la natura, ciò che Thoreau e i suoi contemporanei chiamavano trascendentalismo, è più razionale del fondamentalismo economico che sacrifica la nostra esistenza in nome del denaro”. (continua)
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