Terzo giorno a Venezia, in cui ho imparato ad andare da Cannaregio a S. Marco senza navigatore. Ma prima di percorrere i soliti passi, entro nel ghetto. La parola è veneziana: ghettare significava “affinare il metallo con la ghetta” (il diossido di piombo) e agli inizi del XIV secolo qui c’erano le fonderie che fabbricavano le bombarde. Il ghetto di Venezia nasce 500 anni fa, quando il 29 marzo 1516 il Senato decide che tutti gli ebrei (che a Venezia sono diventati più numerosi dopo la guerra della Lega di Cambrai e il ridimensionamento delle sue mire espansionistiche in terraferma) devono risiedere in quella che di fatto è un’isola a cui si accede tramite due ponti, dove vengono installati due cancelli che la notte vengono chiusi. Poi arriva Napoleone e se li porta via, ma non solo quelli.
E’ una giornata di sole e la piazza è piena di turisti, molti seduti ai tavoli del bar-trattoria a sorseggiare caffè, cappuccini e spritz. Ci sono gruppi in visita, le voci amplificate delle guide creano polifonie cacofoniche in lingue diverse. Percepisco un’aria di tristezza, quasi un senso di desolazione in contrasto con il vociare, i negozi di souvenir, la luce calda e abbagliante di questa giornata settembrina. Forse per le aiuole vuote, che immagino riempite di terriccio e di fiori. L’arredo della piazza è trascurato, l’aspetto del campo è severo e un po’ sciatto.

Riprendo la Strada Nuova da sola. Il mio Henry Higgins è ripartito e io sono senza chaperon. Da perfetta Eliza Doolittle romana ho fatto una gaffe clamorosa appena arrivata: “Anche qui avete parecchi abusi edilizi, eh?”, ho esclamato indicando i gazebo in legno che spuntano sui tetti. “Si chiamano altane e sono perfettamente in regola. Basta chiedere l’autorizzazione e pagare.”
Prima di entrare a Piazza S. Marco svolto a destra: ho riattivato il navigatore che dopo avermi fatto percorrere la 5th Avenue veneziana mi lascia in fila davanti al Canal Grande dove attracca il traghetto, una gondola che fa la spola tra le due sponde del canale. E’ un taxi collettivo e per i non residenti costa 2 euro. Sbarcata a Dorsoduro, vado dritta a Palazzo Venier dei Leoni, sede della Collezione Peggy Guggenheim, dove trascorro tre ore di pura beatitudine.
“Non sono una collezionista d’arte. Sono un museo” (Peggy Guggenheim)
Perché è un posto speciale? Non solo per la collezione, ma perché è un museo dove puoi toccare le statue, fotografare tutto, fissare un Picasso a 50 cm di distanza, oppure sederti sul divano di pelle bianca della padrona di casa e restare in contemplazione dei Pollock, come se abitassi là. Quando vuoi una boccata d’aria esci e ti godi l’affaccio sul Canal Grande di questo straordinario palazzo incompiuto che per trent’anni è stata la residenza di una donna fuori dal comune. Sì, c’è il negozio e sì, c’è il caffè-ristorante che sì, è caro: ma dove altro puoi mangiare un hamburger (vegetariano) e patatine a due metri da una statua di Giacometti? C’è un piccolo gazebo dove puoi sederti a leggere e pensare, o a baciare qualcuno, c’è – in un angolo defilato – la tomba di Peggy e dei suoi adorati babies (la tribù dei suoi cani) e altri angoli di giardino dove, nonostante l’afflusso di visitatori, ti puoi ritagliare un momento di pace. Qui davvero sperimenti che cosa significa vivere circondati da opere d’arte.

Esco ben rifocillata nel corpo e nella mente e torno verso Cannaregio e il ghetto. In diversi negozi ho visto la locandina di una mostra di ritratti di Peggy in una galleria del ghetto a cui questa mattina non ho fatto caso. Così torno al punto di partenza ed entro nel piccolo ma storico regno della fotografia di Živa Kraus, artista e gallerista nata a Zagabria che fondò la Galleria Ikona nel 1979 presso il ponte di San Moisè, per poi trasferirla negli anni 2000 nel Campo del Ghetto Nuovo.
“L’idea della mostra è legata al programma dei 500 anni dalla nascita del Ghetto di Venezia. Il termine ‘ghetto’ affonda la sua etimologia nel vocabolario veneziano e la parola è, a priori, sinonimo di diaspora e di ebraismo. Anche la storia della famiglia Guggenheim è una storia di diaspora: ebrei, originari della Svizzera, emigrano nel 1847 in America. Qui nasce Benjamin Guggenheim, fratello del celebre Solomon, e padre di Peggy”, spiega la curatrice. Peggy visse un’esistenza nomade, in perpetuo spostamento, tra America ed Europa, fino a fermarsi a Venezia, dove nel 1948 partecipa alla prima Biennale del dopoguerra. In diverse immagini è intenta ad allestire personalmente la sua collezione negli spazi del Padiglione Greco. L’anno dopo acquista Palazzo Venier dei Leoni che apre a veneziani e turisti.
Una ventina di immagini (Gianni Berengo Gardin, Gisèle Freund, Dino Jarach, Ida Kar, Man Ray e molti altri) ripercorrono le tappe salienti della vita straordinaria di una collezionista lungimirante, sempre aperta al mondo, una rivoluzionaria che andò contro le convenzioni sociali borghesi e che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’arte del Novecento. Nell’autobiografia Out of this century racconta anche dolori e miserie, debolezze, abbandoni, tragedie anche più della media umana. Di lei si ammira il talento, l’audacia, la spregiudicatezza e la femminilità, che emergono dagli scatti in mostra. Raramente Peggy è stata soggetto di dipinti, sono invece numerose le immagini fotografiche che la ritraggono. “Una mostra – dice la curatrice Živa Kraus – che vuole essere un ricordo e un omaggio a quella collezionista, di cui ogni gesto è stato un gesto d’arte per il XX secolo”.
Peggy Guggenheim in Photographs, a cura di Živa Kraus
fino al 27 novembre 2016 presso Ikona Gallery, Venezia
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