55.065. E’ il numero attuale degli abitanti di Venezia. Ricordo ancora l’espressione incredula sul viso, che invece ho dimenticato, dello studente di Brooklyn quando gli dissi che Venezia stava diventando una ghost town. Eravamo su un ponte affollatissimo, forse davanti ai Sospiri, circondati da centinaia di persone. Fu la mia ultima volta a Venezia prima dello scorso fine settimana. Non era certo il modo migliore di spiegare l’inarrestabile calo demografico della Serenissima a un gruppo di adolescenti che, davanti al Duomo di Firenze, all’informazione “Questa chiesa è stata costruita nel 1300”, avevano risposto senza battere ciglio: “E la usate ancora?”. Non riuscivo a nascondere la mia ripugnanza per la loro mancanza di passato, mentre a loro la mia doveva sembrare un’inguaribile necrofilia (escludo che potessero conoscere la parola, mentre la ripugnanza era certamente reciproca).
Sono di nuovo fra gli invasori, molecola della colata lavica di alieni che si raggruma su navi da crociera, treni, pullman e poi si riversa sulla città, saturando ogni calle, campo, campiello, fondamenta, canale e sestiere. “Sembra Shibuya!”, mi dice un amico incontrato per caso che mi fa da chaperon in questa città aristocratica e snob, vittima del totalitarismo del turismo mordi, bevi & fuggi. E’ strano pensare a Tokyo appena usciti dal Teatrino di Palazzo Grassi dove ho fatto un Sei Gradi per il Festival della Crescita, mentre siamo diretti alla Ca’ Foscari. Il primo giorno a Venezia dopo un quarto di secolo finisce con una vista spettacolare sul Canal Grande da un balcone dell’università, con un prosecco da meditazione mentre sull’Affollatissima cala la notte.
La mattina dopo arrivo a Piazza S. Marco prima che diventi di nuovo Shibuya, faccio una fila ragionevole ed entro in basilica. Poi proseguo per l’Arsenale. In tutto da Cannaregio è un’ora abbondante a piedi. E’ una gloriosa giornata di sole, si potrebbe bigiare e andare al Lido, invece mi infilo con determinazione nella Biennale di Architettura, di cui ricordo con affetto i quindici minuti in cui mi sono afflosciata su un pouf comodissimo e ho guardato il video di due bimbi cinesi che giocavano a tirare i loro cappelli lungo una piccola scarpata, scendevano a riprenderli calandosi tra radici aeree, risalivano, rilanciavano i cappelli più lontano possibile, riscendevano ad lib. Ho capito molte cose, poi ho preso il traghetto per tornare a Cannaregio.
La sera è stata una delizia. Aperitivo a Palazzetto Bru-Zane, nel quartiere San Polo, ex casino Zane (fine 1600) restaurato dieci anni fa dalla Fondation Bru e oggi sede del Centre de Musique Romantique Française, dedicato alla riscoperta del patrimonio musicale francese del grande Ottocento (1780-1920). Fino al 3 novembre c’è un ciclo dedicato a Camille Saint-Saëns. A me sono toccate le mélodies con pianoforte, prima di finire la serata con chiacchiere, vino e le soffici focacce di Estro.
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