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Musica

Morphine, il viaggio dei sogni

Posted on15 Luglio 201615 Luglio 2016
Home  >  Musica  >  Morphine, il viaggio dei sogni

Il 31 dicembre 1999 Sabine Hrechdakian era in cima al Kilimanjaro. Ci era arrivata da sola dopo un’ascesa di sei giorni in moto. Mentre dal tetto dell’Africa guardava il sole tramontare sul secondo millennio, pensava al suo fidanzato con cui aveva programmato quel viaggio. Mark Sandman, cantante e bassista dei Morphine, era morto la sera del 3 luglio a Palestrina, a pochi chilometri da Roma, accasciandosi sul palco di un festival rock in un giardino ai piedi del Tempio della Fortuna Primigenia. Chi c’era quella sera ricorda il grande frastuono nell’istante in cui cadde sull’amplificatore e poi un silenzio irreale. Pensavano che facesse parte dello spettacolo, ma il medico che salì sul palco e gli praticò il massaggio cardiaco capì che era in condizioni disperate. Dalla sala d’aspetto del Pronto Soccorso i suoi amici potevano vedere il lettino su cui era disteso e i medici che si affannavano intorno a lui. Il sassofonista Dana Colley, il batterista Billy Conway e il tour manager videro anche il momento in cui gli coprirono il volto con un lenzuolo.

morph
Poiché era un musicista rock e il gruppo si chiamava Morphine, i carabinieri sigillarono l’albergo in cui alloggiavano e tutta l’area circostante. “In realtà il nome del gruppo aveva a che fare più con Morfeo e il mondo dei sogni”, dice Dana Colley a un certo punto di Journey of Dreams, il documentario che il regista Mark Shuman ha realizzato in lunghi anni di appassionato lavoro. Grazie agli organizzatori del festival Nel Nome del Rock, il 3 luglio scorso, nell’anniversario della morte di Sandman, il film è stato proiettato in anteprima italiana presso il Museo Romano di Palestrina, su una terrazza con vista sul resto del mondo. Presentato già in oltre venti festival, uscirà in dvd a ottobre con molti contenuti extra.

sandI Morphine sono stati una creatura anomala degli anni ‘90: un tempo si sarebbero chiamati power trio, solo che non c’era la chitarra ma un basso primitivo a una o due corde, suonato con la slide dal carismatico cantante Mark Sandman, voce profonda e viso di una bellezza cupa, aristocratica e decadente; con lui il sax baritono di Dana Colley e due batteristi in alternanza, Jerome Deupree e Billy Conway. Una musica blues, dark e sexy, forse a causa di tutti quei bassi che ti arrivano nel ventre.
“Gli anni ‘90 sono stati un’epoca in cui tutto era possibile – dice Dana Colley – II punk aveva permesso a chi non avrebbe mai preso in mano uno strumento di mettersi a suonare. La musica era diventata accessibile a tutti, per esprimerti non dovevi essere un grande musicista, bastava la passione e il desiderio. I Morphine volevano essere una voce distinta, avevamo assorbito tutto quello che c’era stato prima e volevamo reincanalarlo attraverso la nostra interpretazione. Io ascoltavo soprattutto jazz e volevo fare del sax uno strumento rock. Mark amava il blues, ma gli piaceva anche Prince. Per i gruppi garage come Nirvana e Pearl Jam il volume aggressivo faceva parte del suono. Noi avevamo la stessa sensibilità con un tessuto sonico diverso: con noi il pubblico poteva riprendere fiato dall’aggressione sonora tipica dell’epoca”.
Il film è costruito su alcune interviste portanti ai componenti della famiglia Morphine (i musicisti, la manager, la compagna di Sandman, il tour manager) e ad alcuni fan d’eccezione (Henry Rollins, Joe Strummer e Steve Berlin dei Los Lobos), sui diari dei tour meticolosamente tenuti da Colley e su materiale d’archivio. Mark Sandman emerge come personalità ambiziosa e caparbia, un’anima inquieta e misteriosa, turbata da drammi familiari e personali (la morte di due fratelli, un’aggressione quasi mortale quando faceva il tassista).
“Ci eravamo conosciuti negli anni ‘90 quando i Morphine vennero a suonare nel mio locale ad Austin – dice il regista – Dopo la morte di Mark ho chiesto a Dana che fine avevano fatto i diari che scriveva mentre erano in tour. Siamo partiti da quei quaderni e da circa 120 ore di materiale d’archivio. E’ stato un processo naturale, per questo fare il film è stato facile, sebbene molto laborioso”.
Alla fine l’impressione è che si tratti di un grande atto d’amore, rispetto e lealtà nei confronti di Mark Sandman.
“La lealtà è la colla che ci teneva insieme come gruppo – dice Colley…
(Continua a leggere su Il Manifesto)

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