(leggi la prima parte dell’intervista qui) A questo punto Enrico Rava si lancia in una lezione di storia della musica: «È vero che il jazz è una musica in gran parte nera, ma tutta la musica popolare del Novecento, nasce dall’incontro di varie componenti a New Orleans, dove c’erano molti francesi e siciliani. La presenza siciliana era talmente forte che esisteva una linea diretta Palermo-New Orleans. Il primo disco di jazz del 1917 fu di Nick La Rocca, autore di Tiger Rag, uno standard che hanno inciso in molti. Nella Dixieland Jass Band anche il batterista era siciliano, si chiamava Tony Sbarbaro. Il jazz nasce dall’incontro tra un ricordo vaghissimo di come si porta il tempo in Africa: contrariamente a quello che è accaduto sotto la dominazione spagnola e portoghese, che permetteva agli schiavi di parlare la loro lingua, di mantenere la religione, le danze, musica, gli inglesi hanno cancellato tutto. Agli schiavi rimase solo il modo di portare il tempo che è molto diverso dal nostro: in Europa è molto più rigido, tranne in alcune musiche popolari come quella irlandese. In Africa il ritmo è come una palla da basket, ha una notina in più: p-tà, p-tà», spiega Enrico Rava.
Il jazz nasce da un ricordo
«A New Orleans questo ricordo si fonde con la musica sacra inglese, quella da salotto francese, la musica per banda del sud Italia, l’opera, di cui Louis Armstrong era un grande appassionato. Nasce così una musica in cui la componente nera è predominante, ma anche quella europea è presente. Uno dei motivi per cui il jazz già agli inizi degli anni Venti, quando è arrivato in Europa, ha conquistato il pubblico fu per quella componente in cui il pubblico si identificava. Quell’incontro a New Orleans ha innescato una rivoluzione enorme, non solo nella musica ma nella cultura del Novecento, la danza, la musica contemporanea europea, il cinema». E qui Enrico Rava fa una pausa.
Quello che i Beat non hanno capito
La letteratura. «Ecco, in letteratura tutti pensano ai Beat che invece non c’entrano niente perché non avevano capito nulla. I Beat erano affascinati dal mondo del jazz, le droghe, il fumo, i club, lo stile di vita. Quando Kerouac parla di musica ti fa drizzare i capelli. Chi ha capito tutto era Julio Cortázar. Dico sempre una cosa provocatoria: l’unico scrittore jazz è Proust, per le concatenazioni di pensiero. L’improvvisazione jazz funziona allo stesso modo. Molti pensano anche a Joyce e invece no, perché il jazz è molto leggibile». Non è Finnegans Wake. «No. Il jazz è molto comprensibile, ad esclusione di un periodo negli anni Sessanta quando una parte del free jazz divenne incomprensibile perché su quel carro, in cui c’erano geni come Ornette Coleman, siccome non esistevano più le regole sono saltati anche gli incapaci. In Europa si pensava che il free jazz fosse la musica della rivoluzione, di sinistra, mentre il jazz ortodosso era di destra. Si arrivò al punto che a Umbria Jazz Count Basie non lo fecero salire sul palco, accusandolo di essere una spia della CIA. Stessa cosa accadde a Chet Baker: dovette intervenire Elvin Jones, il batterista di Coltrane. I grandi concerti rock all’epoca erano vietati e tutti coloro che d’estate seguivano quegli eventi si sono riversati su Umbria Jazz che era appena nato. Di colpo ci ritrovammo a suonare davanti a un pubblico enorme. Io ho suonato per la prima volta nel 1976 con il mio gruppo americano davanti a sessantamila persone a Terni. Di quelle forse un centinaio erano davvero interessate». Enrico Rava sembra perdersi nel ricordo di quelle folle oceaniche.
Le folle oceaniche dei concerti jazz negli anni Settanta
Fu una grande divulgazione culturale. «Per noi è stato ottimo, quando è finita quella follia una piccola parte di quel pubblico enorme è rimasta, la nicchia del jazz è raddoppiata o triplicata. Bastava mettersi il fazzoletto rosso e alzare il pugno per avere il successo assicurato. Sam Rivers quando arrivava in Europa sembrava Che Guevara, e così facendo aveva successo in Italia e in Francia. A Botteghe Oscure c’era il gruppo Amici dell’Unità che si occupava delle feste e cominciarono a fare concerti jazz importanti: ad esempio portarono Mingus per dodici date con un cachet abbordabile. Io vivevo ancora a New York e feci diciotto concerti, alla festa nazionale dell’Unità a Firenze c’erano trentamila persone. Tutto nacque da Umbria Jazz perché prima alle feste dell’Unità i concerti jazz non c’erano». (continua)