Avete presente il ginocchio di un elefante? Jane Birkin voleva diventare così, rugosa e cascante come la faccia meravigliosa di Glenda Jackson nelle vesti di Re Lear a Broadway, nel 2019. È vero che invecchiando si comincia ad apprezzare i volti degli anziani, ma lei non invecchiava, apprendeva continuamente a vivere. Jane Birkin è le chic naturel, al braccio un cesto di vimini o la borsa che Hermès battezzò con il suo nome nel 1984. Facile, quando hai un viso d’angelo e incarni la nuova bellezza androgina dei tempi, quella degli anni Sessanta, contrapposta alle curve delle pin up del decennio precedente. L’anti Brigitte Bardot. In realtà no. Per quel fisico gender fluid a scuola veniva bullizzata; anni dopo, quegli occhioni da bambola truccati con l’eyeliner e le labbra carnose li trovava orribili. Si preferiva a quarant’anni.
Jane, la mignonne di rimpiazzo
Fu proprio come rimpiazzo di BB che divenne scandalosamente celebre. Jane lo diceva sempre che il giorno che sarebbe uscita di scena, orizzontale e con i piedi davanti, ai tg avrebbero dato la notizia sulle note di Je t’aime… moi non plus. Dopo gli esordi al cinema giovanissima, con ruoli avuti perché era mignonne, carina, grazie all’ennesima provocazione di Serge Gainsbourg si ritrovò in testa alle classifiche, censurata dal Vaticano, censurata dalla BBC, intrappolata per sempre nell’ambra torbida ed erotica come musa e sex symbol. Prima c’era stato 69 année érotique e dopo, nel 1971, La décadanse. Gainsbourg alzava sempre la posta. Insieme formavano una coppia amorale: lui molto più anziano di lei, lei con quel volto da eterna minorenne, perfino sulla copertina di Histoire de Melody Nelson in cui deve sbottonare i jeans per far posto alla secondogenita Charlotte (Kate, avuta dal compositore John Barry, l’aveva avuta a ventun anni nel 1967).
Jane nasce leggenda: Mallory, il suo secondo nome, fu coniato dalla madre Jane Campbell, attrice di teatro – musa di Noel Coward, secondo Cecil Beaton la donna più bella d’Inghilterra – ispirandosi a Sir Thomas Malory, lo scrittore che in La morte di Artù riunì tutte le leggende del ciclo arturiano. Per un’artista che deve il suo successo alla Francia, l’inglesità è rimasta una caratteristica fondante: suo è l’anticonformismo che nasce dal trasgredire le buone maniere apprese alla perfezione, la riservatezza per cui se qualcuno ti chiede come stai, non gli rispondi con la tua cartella clinica. Mai appesantire gli altri con le proprie beghe. Jamais! Meglio condire la vita di croccantezza, come quella del pollo e delle patate arrosto che cucinava per figlie e nipoti.
Una stanza tutta per sé
Jane Birkin conquistò la Francia sull’onda della rivoluzione culturale portata da connazionali come Mary Quant, David Bailey, Twiggy, David Hemmings, Terence Stamp e Jean Shrimpton, di cui era la copia. Come un’altra grande inglese, Virginia Woolf, voleva una stanza tutta per sé. Soffriva tra le pareti nere della celebre residenza di Gainsbourg in Rue de Verneuil, la casa-museo in cui ogni oggetto aveva una sua collocazione precisa e definitiva. Sognava un rifugio sul lato opposto della strada, che avrebbe collegato con un ponte o un tunnel all’altra abitazione.
Dopo la fine della storia d’amore con Gainsbourg, iniziata nel 1968 e conclusasi nel 1980 quando lei lo lasciò, stanca del suo alcolismo e degli abusi, la sua carriera è continuata con molti film di cassetta e d’autore (è stata diretta da Godard, Varda, Tavernier, Rivette, Resnais, Chéreau, Azéma), album e libri (i due volumi dei diari sono stati pubblicati in italiano da Edizioni Clichy nel 2019 e 2021).
L’emancipazione da Serge
Amours des feintes del 1990 fu l’ultimo disco scritto per lei da Serge. Dopo la sua morte nel 1991 è diventata da una parte l’interprete instancabile del suo repertorio, con album come Versions Jane (1996) e il live Arabesque (2002), dall’altra si è emancipata artisticamente: À la légère del 1998 fu il primo disco senza canzoni di Gainsbourg, realizzato con vecchi amici (Alain Chamfort, Alain Souchon, Françoise Hardy) e giovani musicisti (Zazie, Miossec, MC Solaar). Nel 2004 è la volta di Rendez-vous, una serie di duetti con Mickey 3D, Bryan Ferry, Caetano Veloso, Paolo Conte, Feist, Étienne Daho. Enfants d’hiver del 2008 fu il primo disco per cui scrisse tutti i testi in francese. L’ultimo è del 2020 e si intitola Oh! Pardon tu dormais... Diverse canzoni fanno riferimento alla figlia Kate Barry morta nel 2013, forse suicida. «Io fuori, tu sotto», canta in Ces murs epais, quattro parole devastanti per riassumere i pensieri che la tormentano durante una visita al cimitero. Avrà aperto la finestra per far uscire il fumo?, si chiede in Cigarettes con l’ostinazione di una madre che vuole credere alla possibilità di un banale incidente (Kate precipitò dalla finestra della sua casa, in mano stringeva un accendino). «Sigarette. Per testimoni due gatti, un cane, un pappagallo».
Ricordatemi così
Lontanissima dai gemiti erotici del 1969, Jane Birkin avrebbe voluto essere ricordata per un film dell’ex marito Jacques Doillon, La fille prodigue, del 1981: «L’ho rivisto alla Cinémathèque, io e Michel Piccoli siamo veramente bravi. Se muoio, vorrei che trasmettessero il film in televisione, anche a mezzanotte», ha detto. Dovendo scegliere una canzone, invece, sarebbe Les dessous chics, perché è «il ritratto autentico di Serge»: il pudore dei propri sentimenti, mascherati da un trucco sfacciatamente rosso sangue a proteggere la propria intimità, delicata come una calza di seta. (pubblicato su Il Manifesto del 18 luglio 2023)
Il mio ricordo personale
La incontrai una volta a Milano, per la promozione di un disco, orgogliosa della borsa di stoffa comprata in Tailandia. Non ci siamo toccate, ma fu il mio “struscio” con il mito, più che con la celebrità. Lei, era davvero lei quella donna casual, incurante e rilassata che avevo davanti. Come se si fosse aperta la porta di Rue de Verneuil e io avessi sbirciato dentro (accadde veramente, molti anni dopo). Avrei voluto conoscerla meglio. Quei venti minuti contati mi lasciarono un senso di irrealtà.