A San Sebastián scende il sirimiri, la pioggerella nebulizzata, scende la pioggia, c’è una bomba d’acqua, ma il concerto continua e il pubblico applaude e se non può tirare fuori le mani da sotto gli impermeabili distribuiti all’ingresso di Plaza de la Trinidad, inneggia ai Fearless Five di Enrico Rava, ospiti della 58esima edizione del Jazzaldia. Quello che colpisce alla vista e al suono è l’armonia tra i componenti di questo nuovo gruppo che ha un centro di gravità nel contrabasso di Francesco Ponticelli, una componente d’aria nel trombone di Matteo Paggi, un asse di opposti complementari nel temperamento elettrico e teso di Francesco Diodati alla chitarra e la batteria estatica ma incalzante di Evita Polidoro. Quello che colpisce sono gli sguardi che tutti si scambiano e la gioia di suonare insieme un repertorio basato su vecchie composizioni di Rava, il regista sapiente e intelligente, un musicista romantico, poetico e di grande eleganza.
La Citroën DS di Aldo Romano
The Fearless Five era il nome di un brano che Enrico Rava scrisse nel 1978 per il quartetto con Aldo Romano, Roswell Rudd e J.F. Jenny-Clark. Il quinto elemento del quartetto era la prima moglie di Rava che viaggiava con loro. «Quell’inverno andammo in tournée in Germania, Austria e Norvegia, ci spostavamo con due macchine, la mia e quella di Aldo, una Citroën DS. Un’auto stupenda quando va bene, ma se c’era un problema nessuno era capace di ripararla, perché all’epoca era una tecnologia molto avanzata. I meccanici la odiavano. Ogni giorno l’auto di Aldo si fermava in mezzo alla neve e io con la mia dovevo raggiungere la città più vicina per trovare un’officina. Appena dicevo che era una Citroën DS il meccanico esclamava Scheiß! Merda! Andavamo a prenderla, aspettavamo che la riparassero, gli organizzatori del concerto venivano a prenderci e un viaggio di 150 km diventava un’odissea».
«Non sono un talent scout»
Con i suoi giovani musicisti lei dice di avere un rapporto paritario. «Non sono un talent scout, la mia missione non è aiutare i giovani. Nei miei musicisti cerco la stessa visione, l’unità di intenti, che abbiano dodici o novant’anni. Ho suonato con Dino Piana che di anni ne ha 93, ma quando suona potrebbero essere 23. Molti miei coetanei non ci sono più, i pochi che restano continuano a suonare come facevano a quarant’anni. Io ho bisogno di essere sorpreso e di sorprendere me stesso. Sul palco quando c’è telepatia, c’è dare e avere, si crea una democrazia perfetta che esiste solo suonando. Alla mia età dovrei dare da mangiare ai gatti o guardare i cantieri per strada. Mi costa moltissimo prendere un aereo, viaggiare, suonare, ma vale la pena per il momento sublime che a volte si realizza quando si suona. A questo punto ogni concerto potrebbe essere l’ultimo per mia scelta, però con questo gruppo ho ritrovato la voglia di andare avanti e mi piacerebbe fare un disco con loro».
«E nemmeno un rivoluzionario del jazz»
In conferenza stampa Enrico Rava ha detto di non sentirsi nella stessa categoria di Herbie Hancock. «Nella storia del jazz Hancock ha avuto un ruolo essenziale come componente del quintetto di Miles Davis: hanno rivoluzionato il modo di sviluppare il jazz ritmicamente armonicamente. Io non ho fatto alcun tipo di rivoluzione. Quando nel 1952 Chet Baker esplose con il quartetto di Gerry Mulligan e vinse tutti i referendum in America, i suoi contemporanei erano Miles Davis, Clifford Brown, Dizzie Gillespie, Clark Terry, grandissimi trombettisti. Per Chet vincere quei referendum si rivelò dannoso perché tutti i musicisti neri cominciarono a odiarlo, cosa che non meritava perché era un genio. Quando ieri mi hanno dato il premio del Jazzaldia, ho pensato a Chet che diceva: non sono in quella categoria. Io non mi sottovaluto, sono molto autocritico ma ho una buona considerazione di me stesso».
Vero, italiano, spontaneo
Allora qual è il suo contributo alla storia del jazz? «Ho sempre suonato qualcosa di vero, non sono mai stato influenzato dalle mode. Sono sempre andato avanti, ho fatto musica non rivoluzionaria, ma diversa dagli altri. Non gioco a fare l’italiano a tutti i costi, o l’europeo, il non americano, perché per me il jazz nasce in America. Però dentro la mia musica c’è una componente italiana e penso di poter rivendicare una mia originalità».
Come la definirebbe questa componente? «È spontanea. Mia madre suonava il pianoforte classico, era bravissima, ho sentito musica fin da prima di nascere, mio fratello aveva una grande collezione di dischi. Amo musica molto eterogenea: la classica, la brasiliana; ho vissuto molto in Sudamerica e conosco benissimo il tango, mi piace la musica del Burundi, dei pigmei, quella indiana, il rock, il funky, Michael Jackson e Prince. Tutte queste cose sono entrate a far parte di me, quando scrivo i temi possiedono certe caratteristiche proprie e non sono più americani al 100 per cento». (continua)