Il muschio, i ciottoli rotondi, la poesia, i nipoti, i cani, lo yoga, correre, il cioccolato, i lamponi congelati, le betulle bianche (che in inglese sono «argentate»), il codibùgnolo (un piccolo passeriforme, così paffuto da essere praticamente sferico, con una coda sottile più lunga del corpo, buffo e bello al tempo stesso). Sono alcune delle cose preferite di Anna B. Savage. La B sta per Beatrice, un nome dantesco sinonimo di guida per raggiungere la salvezza della propria anima. Nomen omen, Anna è stata la Beatrice di se stessa, e nel giro di due dischi ha rivoluzionato in meglio la propria esistenza.
Cantautrice londinese, figlia di due cantanti lirici, ha esordito nel 2021 con A Common Turn, un disco drammatico e cupo, fin dalla copertina total black in cui si nasconde il viso con le mani che tengono due ali corvine aperte a ventaglio. In quelle canzoni, intense in modo a volte quasi intollerabile, cantava da un luogo spirituale assai diverso da quello in cui si trova oggi. In «Chelsea Hotel #3» il suo proposito per il nuovo anno era imparare a prendersi cura di sé. A giudicare dal nuovo album inFlux, ha mantenuto la promessa.
Il disco si apre con «Ghost», una canzone sul passato che ritorna sotto forma di un amante impossibile da dimenticare. Man mano, però, il disco prosegue verso la liberazione, una presa di distanza («tu vivi nelle foreste, io sulle montagne») e arriva alla capacità di accettare l’imprevedibile connaturato nell’umano, le scelte dell’altro, i suoi desideri e i propri: non è forse questa la vera maturità, la caratteristica dell’essere adulto? Vivere – non sopravvivere – nell’incertezza che ci appartiene.
Lo sguardo è lucido e manifesta l’assunzione di una posizione di forza tale che non esistono più vittima e carnefice ma ruoli, fatti, eventi. Ha un modo curioso di raccontare le storie e le relazioni, Anna Beatrice Savage. In «Crown Shyness» paragona un rapporto fallito, l’impossibilità di fondersi con l’altro, alla timidezza delle chiome, il comportamento di alcune piante le cui fronde non arrivano mai a toccarsi. C’è un grande lavoro sui testi, limpidi, essenziali ed evocativi. «Sono una grande lettrice e di volta in volta i miei autori preferiti cambiano», dice. «In questo momento citerei Maggie Nelson, Seamus Heaney, Jia Tolentino, Mary Oliver, Jackie Kay, Anne Brontë, Tove Jansson».
La musica è piena di respiro, leggera, gli arrangiamenti sono tagliati su misura per ogni brano, come i fiati in lontananza di «Say My Name», un pezzo centrale nel disco, dal finale drammatico: un respiro mozzato, Anna che trattiene le lacrime alla fine della take. Nell’evoluzione esistenziale tracciata dal ciclo di canzoni, sembra una ricaduta: arriva a metà del disco e parla di una crisi di identità. Quindi quella verità definitiva che sembrava così a portata di mano, ancora una volta ce la possiamo scordare? «È il flux/flusso dell’influx/influsso», risponde citando il titolo dell’album. «La vita non è precisa, ordinata, le emozioni sono difficili da gestire, ti sorprendono, spesso ti confondono. Una delle cose belle di fare un album è poter guidare le persone lungo un percorso. “Say my name” è una canzone cruciale e devastante, ma siccome è più triste di altre, non andava bene come apertura. Volevo che l’assenza di linearità nella vita si riflettesse nella tracklist, nel paesaggio sonoro e nel contenuto dell’intero disco. Alcune canzoni contengono l’intera gamma di emozioni, come accade agli esseri umani in certi giorni. Il brano è un centro emotivo temporaneo, non vorrei lasciare nessuno in quel punto del disco, ed è l’unica canzone di cui avevo già in mente tutto l’arrangiamento prima di registrarla con Mike».
Mike è Mike Lindsay, cofondatore dei Tunng e produttore, con cui Anna ha suonato e arrangiato l’album, scegliendo pochi strumenti per creare la giusta coloritura, una tessitura che fa da controcanto alla sua voce scura, di una duttilità operistica. «Clarinetti e sassofoni sono meravigliosi, li abbiamo messi nell’album semplicemente perché io li so suonare. C’è una kalimba Colour Palette prodotta dal mio amico Lottie Canto. Me ne hanno costruita una personalizzata e quando l’ho ricevuta ho capito subito che doveva avere un ruolo importante in questo disco, ha un suono bellissimo e inquietante al tempo stesso. Gli altri strumenti sono cose che Mike ha in studio, una serie incredibile di oggetti con cui giocare. Volevamo che il suono complessivo fosse abbastanza contenuto così abbiamo scelto solo cinque cose, ma le abbiamo sfruttate bene».
«The Orange», il titolo dell’ultima canzone, è una metafora della nuova condizione mentale di accettazione e consapevolezza? «Per me l’arancia non è affatto una metafora, è proprio un’arancia in senso letterale. Nel contenuto emotivo riprende l’omonima poesia di Wendy Cope: «I love you, I’m glad I exist» («Ti amo, sono felice di esistere»), dicono i suoi versi. Avevo praticamente finito quel brano quando mi sono resa conto che esprimeva lo stesso sentimento della poesia, così l’ho riscritto e riorganizzato per dargli un riferimento più riconoscibile. Più che una metafora è un biglietto da visita».
Dall’ossessione di «Ghost» alla condizione di gioia dell’ultima canzone, tutto il disco sembra un viaggio. Le canzoni sono nate in quell’ordine? «Sarebbe stato più facile scriverle così, ma purtroppo la vita va in un altro modo! Volevo che l’ascoltatore lasciasse l’album con uno stato d’animo più positivo rispetto a quello suscitato dal primo disco. Le mie condizioni mentali sono parecchio migliori adesso, volevo creare un paesaggio emotivo positivo anche per chi ascolta». (pubblicato su Il Manifesto del 3 maggio 2023)