Nello stile chitarristico di Tom Verlaine c’è anche la viola di John Cale nei Velvet Underground, uno strumento minaccioso, apocalittico, forgiato al conservatorio ma intriso di feroci intenti iconoclastici, fin dal primo concerto con Lou Reed. Si chiamavano The Primitives e avevano già deciso di stroncare sul nascere il disgustoso flirt ormonale tra gli adolescenti della provincia americana e il pop-rock da classifica. Sul palco Cale era quello con i capelli lunghi e gli occhiali da sole, vestito di nero e adornato di gioielli d’argento: una visione oltraggiosa all’epoca.
Le sue prime tre tappe musicali erano state l’Orchestra Giovanile del Galles, il Goldsmiths di Londra e Tanglewood in Massachusetts, dove arrivò con una borsa di studio dopo un colloquio con Aaron Copland. A New York trovò casa nell’avanguardia musicale di John Cage, La Monte Young e Tony Conrad. Ma Cale è anche l’autore di canzoni pop straordinariamente melodiche, che si aprono in modo sublime e da cui ci si fa volentieri lacerare l’anima a ogni ascolto: Buffalo Ballet da Fear, Close Watch nelle varie versioni, tra cui quella dal vivo al pianoforte in Fragments of a Rainy Season, Child’s Christmas In Wales in Paris 1919.
Alla luce delle recenti perdite (la scomparsa di Jeff Beck, David Crosby e Tom Verlaine) e della constatazione che inevitabilmente, dopo essere rimasto orfano dei padri e delle madri, fra pochi anni il rock’n’roll perderà anche la prole – le rockstar degli anni Sessanta e Settanta – un nuovo album di John Cale nel 2023 è un evento culturale che riempie il cuore di gioia.
John Cale ha compiuto 80 anni nel 2022, è nato esattamente a una settimana e un oceano di distanza da Lou Reed: uno a Brooklyn, l’altro a Garnant, nel Galles meridionale. Oggi vive a Los Angeles dove lavora molto, fa esercizio, lavora, esce a prendere aria e poi torna a lavorare. Il Galles lo porta sempre nel cuore. «Si dice che Merlino, il famoso mago alla corte del leggendario Re Artù, fosse nato a poche miglia da dove sono nato, e io mi sono sempre aggrappato alle credenze magiche», scrive nell’autobiografia What’s Welsh for Zen. Tavola Rotonda a parte, per Cale le ricorrenze anagrafiche non contano, non pensa agli anni ma al prossimo disco: «Non vedo l’ora di iniziarlo, ho ottanta canzoni, tutte scritte negli ultimi dodici mesi. Non faccio caso ai compleanni, non sono di per sé creativi o interessanti, sono solo un giorno da aggiungere alla settimana esistente».
Mercy doveva uscire già la scorsa primavera, Cale l’aveva completato prima della pandemia, lavorandoci sporadicamente per un anno e mezzo, ma il lockdown lo ha costretto alla ritirata. Ha approfittato di quel periodo e ci ha rimesso le mani, l’ha riarrangiato e ha sostituito alcune canzoni con altre. È stata l’occasione per adattare il disco a una situazione temporale e spaziale molto specifica, ma finalmente è arrivato il momento di condividerlo con tutti.
La prima cosa che si apprezza, scorrendo i nomi degli ospiti, è che Cale non ha perso la curiosità per la nuova musica, non è cinico, non è sazio: «In giro c’è molta grande arte, bisogna solo mantenere il desiderio di esplorarla, di cercarla. Non ascolto cose che appartengono a una categoria o a un suono, e di conseguenza non mi interessa fare musica che ricada alla perfezione in un genere. L’ampiezza giova alla creatività». Il titolo dell’album è una promessa di empatia nei confronti dell’umanità, ma il mondo che emerge dalle nuove canzoni – i movimenti di una suite fluida, notturna, dall’andamento trip hop – è un luogo cupo. Allo stesso tempo le canzoni sono pervase di speranza e di amore, quindi c’è fiducia nell’umanità? «Per questo canto: “Looking for mercy, more and more”. Credo davvero che possiamo trovarla e darla la speranza, e anzi dobbiamo farlo. Nel brano che dà il titolo al disco c’è Laurel Halo. Avevo lavorato con lei in concerto quando ha suonato con me in Australia, mi è sempre piaciuto l’uso elegante e fluttuante che fa della voce. Mercy possiede una gamma di colori in cui sapevo che lei avrebbe potuto inserirsi agilmente e lo ha fatto in modo molto elegante». Altri incontri felici sotto gli stessi auspici sono Story of Blood con Weyes Blood e I Know You’re Happy con Tei Shi.
C’è un filo conduttore nel disco? «Tra gli identificatori profondi direi che ci sono le menzogne, la disinformazione, le teorie di cospirazione, le armi, la violenza, e tanto tanto odio. Voglio che la gente dica la verità per risanare il disastro in cui viviamo. La redenzione è possibile, mettete in movimento la vostra anima!».
In un disco così aperto al futuro, il passato emerge in un paio di brani dedicati a due presenze numinose, per Cale e per il Novecento. Moonstruck è per Nico: «A volte scrivi una canzone, arrivi alla fine e non hai idea di che cosa parli. È successo così con Moonstruck: ne ho inciso almeno dieci versioni diverse e solo quella finita sull’album mi ha fatto capire che l’avevo scritta per Nico. Le parole sono sempre rimaste le stesse, ma l’atmosfera e l’arrangiamento hanno subito delle metamorfosi. Ogni volta sentivo una malinconia travolgente, tanto che ho giurato che non l’avrei mai finita perché era una tortura, ma tutti mi dicevano che era importante e non dovevo abbandonarla. Ho scritto gli archi e quel riff stentoreo e poi l’arrangiamento più morbido. All’improvviso ho riconosciuto la donna nella canzone, sempre in cerca del suo posto, della pace, desiderosa di essere accettata, una donna che usava l’autodistruzione come carburante per combattere un giorno dopo l’altro. Mi sono reso conto che non avevo mai scritto una canzone sulla mia amica Nico». Poi c’è Night Crawling, su David Bowie e gli anni Settanta a New York: «Quelle notti passate per le strade di New York, andando da un club all’altro, furono un periodo seducente e lurido. Era eccitante e pericoloso andarsene in giro così. Io e David avremmo potuto fare musica interessante insieme, ma non si può tornare indietro. Ci siamo divertiti e io non credo ai rimpianti».
(pubblicato su Il Manifesto del 15 febbraio 2023)