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Musica

Carnage, Nick Cave & Warren Ellis

Posted on27 Febbraio 2021
Home  >  Musica  >  Carnage, Nick Cave & Warren Ellis

E anche stavolta per le chitarre dobbiamo aspettare la prossima volta. Se c’è una cosa che gli ultimi dischi di Nick Cave riescono a fare, è suscitare un senso di frustrazione in chi ancora nutre un inspiegabile attaccamento per il rock fondato sulla trinità di chitarra, basso e batteria. Un’abitudine mentale di cui – senza tornare troppo indietro nel tempo – avremmo dovuto liberarci perlomeno con l’avvento della new wave e dell’elettronica nei primi anni ‘80. Eppure molti continuano ad aspettarsi dai Bad Seeds quel frastuono apocalittico ed elegante di cui sono maestri eccellenti. Vorremmo tornare indietro, ai Vecchi Tempi, e non dover convivere con il lutto delle chitarre martorianti e perdute di Blixa Bargeld, sostituite non tanto dalla sei corde di George Vjestica, quanto dal violino selvaggio di Warren Ellis. 

Da tempo, almeno da Push the Sky Away del 2013, quel frastuono i Bad Seeds non lo producono più su disco, ma la loro potenza di suono è intatta dal vivo. Appunto. 

A meno di non essere in intima comunione con Nick Cave, condizione peraltro abituale per i fan hardore, il resto del mondo difficilmente può comprendere gli effetti devastanti della pandemia su uno stakanovista forsennato come lui. Quando nella primavera del 2020 il tour di Ghosteen è stato rimandato di un anno, con un atto di fede laica tutti siamo stati disposti a credere che dodici mesi fossero un lasso di tempo sufficiente per tornare ad accalcarsi in un’arena dove contatto fisico e schizzi di saliva non sarebbero più stati armi di distruzione di massa. Lo scorso dicembre, quando ho riportato i miei due biglietti al botteghino dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, ho provato un senso di amarezza parzialmente alleviato dall’essere rientrata in possesso di un discreto gruzzoletto rimasto confiscato per un anno e mezzo. 

A Nick Cave i tour mancano come le endorfine a chi va a correre o a nuotare tutti i giorni. Infatti appena hanno allentato il lockdown, ha prenotato l’Alexandra Palace di Londra e ha fatto un recital per pianoforte e voce, un concerto senza pubblico, con un feedback fisico ed emotivo virtuale. Per fortuna da tempo ha stabilito un rapporto diretto con i suoi culties tramite la newsletter Red Hand Files: «Come faccio a sapere se sono sulla strada giusta? Ti piacciono gli haiku? Che ne pensi di Narcotici Anonimi? Che significa Cristo per te?», sono alcune delle domande a cui risponde abitualmente.

Il 7 dicembre scorso, annunciando la cancellazione definitiva del tour, aveva scritto: «È ora di fare un disco». Un mese dopo, ha rivelato il titolo dell’album. «Com’è il tuo lockdown?», gli chiedeva Tobias da Londra, e Cave rispondeva che sotto molti aspetti il lockdown è una condizione di autoisolamento che gli è familiare, essendo stato a lungo un eroinomane, e più recentemente per la morte del figlio Arthur: «Il lutto collettivo funziona in modo stranamente simile al lutto personale, genera una confusione cupa, una profonda incertezza e perdita di controllo. Il lockdown mi sembra una versione sotto mandato statale della stessa cosa, una formalizzazione del comportamento da eremita al quale sono sempre stato predisposto». Poi aggiungeva: «Mi sorprende, tuttavia, quanto mi risulti difficile non poter suonare dal vivo. Sono arrivato alla conclusione che fondamentalmente io sono una cosa che va in tour. Quello che provo è un desiderio tremendo e struggente, la sensazione di una vita vissuta a metà. Mi manca l’eccitazione di salire sul palco, la furia della performance, quando tutte le altre preoccupazioni si dissolvono in una correlazione puramente animalesca con il pubblico. Mi manca il totale abbandono al momento, la perdita dell’io, la fisicità, il nutrimento e la frenesia dell’amore collettivo, la religione, lo scambio glorioso di fluidi corporei – e i Bad Seeds, ovviamente, in tutto il loro sfrenato splendore».

Nel prendere congedo da Tobias, nell’ultima riga aggiungeva: «Come promesso nell’ultima newsletter, sono andato in studio – con Warren – per fare un disco. Si intitola CARNAGE». Passa un altro mese e Marin da Zagabria gli chiede più informazioni sull’album. «CARNAGE è un disco brutale ma molto bello, radicato in una catastrofe collettiva», risponde. Nonostante le circostanze avverse, Nick Cave cerca di preservare almeno la prima componente del meccanismo che lo tiene in vita: fare un disco e portarlo in tour.

Torniamo alle chitarre agognate. CARNAGE non è Ghosteen né musicalmente né spiritualmente. Non è un album casalingo che fa di necessità virtù: a dispetto del lockdown, è un disco suonato con (molti) strumenti veri: c’è un quartetto d’archi, due batteristi (Thomas Wydler è l’unico altro Bad Seed presente), un coro di cinque persone, una chitarra acustica oltre al consueto dispiegamento di utensili tipici di Warren Ellis (violino, viola, flauto contralto, chitarra tenore, pianoforte, harmonium, sintetizzatore, loops, drum machine, glockenspiel, auto harp). Per essere un disco realizzato sotto la spinta di un impulso ineludibile alla creazione, ha un suono epico. 

CARNAGE è un disco che si muove tra presente e passato, che torna alle radici australiane di Cave, rievocando immagini della sua infanzia ed episodi impressi nella psiche come archetipi: lo zio-boia che decapita i polli e li trasforma in fontane, mentre il piccolo Nick scalzo osserva la scena. Subito dopo è di nuovo l’uomo adulto con in mano il libro di una delle sue scrittrici preferite, Flannery O’Connor. Immagini, pensieri e ricordi vengono alla luce in un tempo di riflessione forzata: Nick Cave è l’uomo seduto al balcone che legge, scrive in modo compulsivo e pensa alle cose.

È una scrittura non narrativa, visionaria e simbolica. Il fiume è il luogo di avventure di un’infanzia e adolescenza libere e selvagge (molti anni fa in un’intervista mi disse che l’unica forma di attività fisica che concepiva era nuotare in un fiume), diventa biblico, fonte battesimale e infine trasfigurato nel corpo dell’amata distesa sul letto (Hand of God).  

Nelle canzoni vive un’immagine mitizzata della coppia coniugale, che esce trasformata e rafforzata dalla tragedia. In Old Time i due si smarriscono dopo aver imboccato una strada sbagliata, come in una fiaba dark, e si ritrovano in un passato simile al presente: «Gli alberi sono neri e la storia ci ha messi in ginocchio in un tempo freddo, dove i sogni di tutti sono morti». Si ripetono immagini di fuga, di evasione dal presente e rifugio in un altrove temporale, in cui l’io era il vecchio io (prima della catastrofe) e la vita era avventura, erotismo on the road, sesso consumato vivacemente in motel, mentre la radio suona uno dei suoi brani preferiti:

A lunatic beauty under a watery moon
You’re melting by the motel swimming pool
By the Time I Get to Phoenix on the radio
Your moon to my shooting star

Soprattutto, se si ascolta con attenzione, dentro CARNAGE ci sono i nostri pensieri: Nick Cave ci legge nel cuore, pensa le nostre stesse cose e le dice meglio. La sua dimensione lirica è collettiva. Albuquerque siamo noi: una ballata sulla futilità dei nostri piccoli progetti di fuga dalla condizione distopica che ci immobilizza, i viaggi che sogniamo, rimandandoli di poco, sempre più spesso, finché non vengono stritolati dalla realtà: 

And we won’t get to anywhere, darling
Anytime this year 
And we won’t get to anywhere, baby
Unless I dream you there

Poi arriva la pietanza. CARNAGE è pieno di riferimenti alla cronaca recente e recentissima, citati in modo riconoscibile, ma trasfigurati in chiave mitologica. White Elephant è fitta di richiami alle cronache di quest’ultimo anno. George Floyd e la statua di Edward Colston a Bristol sono condensati in un’immagine surreale e tragica: «Un manifestante mette il ginocchio sul collo di una statua, la statua dice non riesco a respirare, il manifestante risponde così adesso sai che significa e la butta a mare»; il presidente che chiama i federali non può che essere Trump durante l’assalto a Capitol Hill e il delirio del cacciatore di elefanti suona paurosamente simile a quello di un suprematista bianco:

I’ve been planning this for years
I’ll shoot you in the fucking face
If you think of coming around here
I’ll shoot you for just for fun

Quello che ai Vecchi Tempi delle Murder Ballads era il monologo di Stagger Lee, personaggio leggendario di un Far West mitologico, oggi è qui tra noi e suona come lo hate speech dei sostenitori di Trump. O, cosa ancora più agghiacciante, come quello di un cittadino qualsiasi incattivito dal protrarsi della pandemia, scivolato in una condizione borderline in cui la rabbia repressa rischia di esplodere alla minima provocazione, per un senso montante di sopraffazione, mentre gli scontri verbali e ideologici si radicalizzano nelle fazioni di un conflitto civile. Ma poi, almeno nella canzone, tutto si scioglie nel lieto fine di un crescendo gospel, sinfonico, liberatorio e probabilmente ironico.

Il trittico finale ci riporta alle atmosfere spirituali di Ghosteen. Ascoltando Lavender Fields, ci si chiede quanto la pandemia abbia intensificato la riflessione sulla propria caducità in un uomo dal sistema immunitario compromesso da lunghi anni di abusi e moralmente segnato da un lutto personale insormontabile. In Shattered Ground, la voce di Cave mesta e furiosa canta di altre possibili separazioni e addii. Di nuovo è la coppia l’unica certezza dell’esistenza terrena, una coppia che riesce a trasformare una duplice follia in una specie di sanità mentale:

And there’s a madness in her and a madness in me
And together it forms a kind of sanity. 

CARNAGE è la carneficina che da un anno tutti abbiamo sotto gli occhi, visibile giorno dopo giorno solo sotto forma di cifre, statistiche e percentuali mutevoli, in un raffronto continuo tra un paese e il resto del mondo, illusoriamente diversi ma profondamente uguali sotto la stessa catastrofe. Ma CARNAGE è vivo e palpitante, perché la carneficina è anche quella delle nostre vite quotidiane menomate dalle restrizioni e – sapremo meglio in futuro quanto e come – alienate da meccanismi di adattamento semplicemente contronatura. CARNAGE incarna lo spirito dei tempi, cantato da un uomo che, come l’eroe di una tragedia greca, combatte un destino più grande di lui e della storia, mentre riflette su se stesso e sull’umanità. Canta – perché che altro può fare per restare vivo? – otto canzoni in cui possiamo rispecchiarci tutti noi che non ci riconosciamo più (And sometimes I hear my name, Oh where did you go?), che ci sentiamo cambiati e strani, come sotto l’influsso di un’erba magica:

People ask me how I’ve changed
I say it is a singular road
And the lavender has stained my skin
And made me strange.

Nell’ultimo brano, Balcony Man, oltre a dialogare con un interlocutore che ai Vecchi Tempi avremmo trovato improbabile (Fred Astaire), Nick Cave ci dice che cosa abbiamo imparato in questi dodici mesi:

What doesn’t kill you just makes you crazier.

In questa pestilenza che rende folli quelli che non uccide, oltre che essere una sintesi poetica sullo stato delle cose, CARNAGE è una lezione di vita, forza d’animo, arte e resistenza. È anche il nome del demone della sua vocazione.    

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