Poche persone possono vantare come residenza un cespuglio di rododendro, un carretto per la vendita del pane oppure una casa diroccata sull’isola di Berneray, nelle Ebridi Esterne. I guru del downshifting e del simple living avrebbero molto da imparare da Vashti Bunyan, maître à penser del «vivere d’ingegno e farla franca», come canta in Wayward, ovvero dell’arte di arrangiarsi con molto poco, quasi niente. Alta, lunghi capelli neri, grandi occhi scuri e miti, la voce qualche decibel più di un sussurro, alla metà degli anni ‘60 era quanto di più simile a Françoise Hardy si potesse incontrare dall’altra parte della Manica.
Andrew Loog Oldham, manager dei Rolling Stones, le fece incidere una canzone di Jagger & Richards e qualche altro singolo. Tempo sprecato. Ulteriori tentativi non portarono alcun frutto. Esasperata e frustrata, Vashti si rassegnò: non sarebbe mai diventata una popstar. Quando Joe Boyd, produttore di The Incredible String Band e Fairport Convention, finalmente le fece incidere le sue canzoni, accettò controvoglia. Si ritrovò intrappolata nell’etichetta folk che detestava e le recensioni di Just Another Diamond Day non fecero che aumentare la sua amarezza e il disincanto. Così se ne tornò da dove era venuta: in Scozia, dove era arrivata insieme al suo compagno (e futuro padre dei suoi tre figli) Robert Lewis, a bordo di un carretto tirato da un’anziana cavalla. Quel viaggio iniziato nel luglio del 1968 è diventato leggendario nella storia del pop e Vashti è stata per decenni una voce perduta, una folksinger scomparsa nel nulla.
In realtà quel viaggio non fu il colpo di testa di una coppia di hippie sprovveduti, ma una scelta obbligata, il ripudio consapevole di una società coercitiva e repressiva. Potremmo citare Walden di Thoreau o Into the wild di Sean Penn, invece tireremo in ballo gli hippie-chic Devendra Banhart e Joanna Newsom, suoi fan devoti. Oggi Vashti vive a Edimburgo, dove si è trasferita perché – ci dice candidamente – si è innamorata del suo avvocato. A 70 anni è spontanea, trasognata, eterea, ma straordinariamente resiliente, come è sempre stata. La prima cosa che le abbiamo chiesto è se è vero che nel 1968 fu rapita da Heathcliff. «Robert non assomigliava a Heathcliff, però portava un grande mantello e stivali da cavaliere, e aveva modi di fare teatrali. Era molto carismatico, sicuro di sé, cupo e serio. Fu un viaggio straordinario e mi piacerebbe spiegarlo nel contesto di quegli anni, descrivere le circostanze che ci hanno spinto a lasciarci tutto alle spalle. Voglio raccontarlo ai miei figli perché è molto difficile dire quello che sono stati gli anni ‘60. Questa è una storia di cui non ho mai parlato: intorno al 1963-64 una mia amica ebbe un figlio senza essere sposata, i genitori decisero di non aiutarla e il figlio le fu tolto dopo sei settimane. Io la conobbi due anni dopo e lei non aveva ancora superato il trauma. Quella crudeltà verso una ragazza così giovane mi suscitò una grande rabbia. Probabilmente fu quell’episodio a innescare in me se non una ribellione, perlomeno l’inizio di una serie di domande a cui non trovavo risposte. L’unica via d’uscita era crearmi un mondo mio perché quello che avevo intorno era inaccettabile: troppa ingiustizia, disapprovazione, repressione, l’atmosfera era soffocante.
Lei ha vissuto molti rifiuti e pregiudizi in età piuttosto giovane: il fallimento come cantante pop, le discriminazioni verso i nomadi durante il viaggio con il carro, l’ostracismo della comunità gaelica nelle Ebridi, il flop del disco.
Ero molto sicura di quello che desideravo: un posto dove coltivare il mio orto, tenere tutti gli animali che volevo senza che mio padre cercasse di impedirmelo, e fare figli. Quello che volevo era molto semplice, nella mia testa c’era un’immagine molto chiara. Il rifiuto musicale è stato doloroso, il resto invece lo consideravo un’educazione fantastica. Come tutti quelli della mia generazione ho avuto un’infanzia molto protetta, ma sentivo che nella mia vita mancava qualcosa. Ho sperimentato che significa essere trattata come una nomade o essere straniera in un paese, perché essere inglese alle Ebridi non era affatto facile. Scoprire come ci si sente a stare dall’altra parte mi ha fatto aprire gli occhi. Oggi penso che sia stata la miglior educazione che potessi avere. Riguardo al disco: sapevo che aveva perso la sua occasione, quindi non fui sorpresa di quell’insuccesso. Ma dato che veniva dopo altri fallimenti, fu un rifiuto bruciante, per cui non ne parlavo mai in famiglia. Non l’ho mai fatto ascoltare a nessuno. Poi nel ‘96 ho comprato un computer per scrivere la mia storia e raccontarla ai miei figli. In rete ho scoperto che Diamond Day non era scomparso, la gente ne parlava, e mi sono impegnata per farlo ristampare. Da quel momento in poi mi sono concentrata di nuovo sulla musica e non ho più iniziato il libro.
Durante il viaggio non ha mai avuto voglia di mollare tutto e tornare indietro? A volte le condizioni erano davvero avverse.
Ero molto autosufficiente, non era importante se non possedevo molto. Ero convinta che se continuavo a muovermi, avrei trovato quello di cui avevo bisogno. Era fondamentale il senso del movimento, non rimanere ferma, bloccata, come mi sentivo a Londra. Durante il viaggio una delle cose più belle era correre davanti al cavallo e al carro, voltarmi a guardarli e pensare che per sopravvivere avevamo bisogno davvero di molto poco, ed era tutto in quello spazio piccolissimo. Era la sensazione più bella. Quello che veramente mi ha aiutato è stato rinunciare ai bisogni, alle necessità.
Un concetto molto buddista.
Sì, anche se all’epoca non lo sapevo! Quando ho avuto Whyn, la mia secondogenita, abbiamo fatto un altro viaggio su un carro. Per lavare i panni dovevo rompere il ghiaccio in un fiume per prendere l’acqua, ma ci ero così abituata che non ci trovavo niente di strano. Era normale cavarmela con quello che avevo.
Per molti anni ha fatto la mamma e la casalinga lavorando nella fattoria. Era quella la realizzazione del suo sogno?
Era quello che volevo, ma siccome avevo avuto un’esperienza meravigliosa in movimento, ed era diventata parte di me, quando siamo diventati stanziali ho avuto difficoltà. All’inizio ho pensato che non ci saremmo fermati a lungo, che ci saremmo rimessi in viaggio per andare da qualche altra parte. Mi sentivo sempre molto irrequieta. Mi chiedevo: ho fatto quello che volevo fare? Forse la verità era che non l’avevo ancora realizzato. Era difficile credere che nella mia vita c’era stato posto per la musica e che potesse di nuovo avere un ruolo, una volta che avessi finito di occuparmi di quei figli che avevo voluto disperatamente. La sindrome da nido vuoto esiste davvero, non è un modo di dire, è una cosa tremendamente reale, ma io non credevo che la musica sarebbe stata ancora lì ad aspettarmi.
Un altro disco arriverà?
Canzoni nuove ancora non ne ho, solo frammenti. Credo che per un po’ farò qualche collaborazione con altri musicisti. Quello che invece voglio fare è concentrarmi sulla scrittura per raccontare la mia storia ai miei figli. È per loro che voglio scrivere il libro.
(pubblicato su Il Manifesto del 2 marzo 2016)
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